Si pensa che l’inconscio sia un luogo misterioso, una sorta di soffitta o di cantina in cui sono ammassati, da tempi mitici, dei reperti più o meno preziosi che riguardano la storia e la vita di una persona, e lo psicoanalista sarebbe il detentore della chiave per aprirne le porte e incominciare a rovistarvi dentro.
Mi è capitato di ascoltare una donna a cui lo psicoterapeuta aveva detto: “Ora lei immagini di essere una libreria piena di libri. Lei verrà in terapia e io ne smonterò gli scaffali per rimontarla da zero e poi disporre i libri in modo diverso”. La donna in questione, un soggetto fragile e molto sofferente, di fronte a simile “programma”, è precipitata in un’angoscia devastante. Affranta e attonita di fronte alla possibile rovina di ciò che bene o male aveva edificato nel corso della propria vita e serviva a sostenerla, non poteva neanche immaginare che la sua metaforica libreria, con i suoi libri, con i titoli disposti secondo il suo ordine, venisse smontata dallo psicoterapeuta.
L’inconscio non è un luogo misterioso ma una costruzione del soggetto che non è lecito abbattere in nome di un’idea – tutta del terapeuta – di giusto o sbagliato, di sano o patologico, ossia a partire dal suo di ordine, dal suo di “programma”. Ci vuole rispetto del “programma” di ciascuno affinché egli, paziente che soffre, possa coglierne la trama e capirci qualcosa.
L’inconscio di Freud è fatto di parole che s’incatenano l’una all’altra e che si possono ascoltare. Freud lo ha scoperto ascoltando le parole delle sue pazienti isteriche: Anna O., Dora, la giovane omosessuale, e dai suoi pazienti: l’uomo dei topi, l’uomo dei lupi, il presidente Schreber, nonché dai meravigliosi discorsi di un bambino di quattro anni: il piccolo Hans, solo per citare i casi più famosi. Le donne, gli uomini e i bambini gli hanno rivelato l’importanza degli effetti della parola sull’essere umano, sul corpo dell’essere umano. Freud non solo ha reperito l’inconscio negli inciampi della parola: lapsus, dimenticanze, motti di spirito, ma anche nei sogni che ascoltava con un ascolto particolare: come se leggesse un testo, un testo magari confuso, insensato, con dei buchi nella narrazione e dove tempo e luogo non rispettano la logica comune. L’inconscio è senza tempo, diceva Freud. Lacan dirà che ha bisogno di tempo per dispiegarsi. Freud si è accorto che i suoi pazienti o le sue pazienti, parlando, avevano una remissione dei sintomi, come per esempio la sparizione di una paralisi del braccio o il ritorno delle mestruazioni nel caso di una “gravidanza isterica”.
A qualcuno sarà forse capitato di vedere delle raffigurazioni di donne isteriche di fine ottocento, internate dell’Ospedale della Salpêtrière a Parigi, con i corpi arcuati in pose acrobatiche, i volti contratti in strane smorfie o rapiti in espressioni di estasi. Quello che veniva definito l’”arco isterico” può dare un’idea dell’effetto della parola sul corpo, una parola che prima di Freud non era presa in considerazione, né ascoltata, tanto più se era la parola di una donna. Le isteriche, infatti, erano considerate delle pazze da placare con metodi di contenzione fisici e/o farmacologici secondo l’usanza del tempo.
Oggi l’inconscio, per molti, è un concetto bandito, come per esempio accade nelle facoltà di psicologia, là dove altri modi, solo in apparenza dedicati all’ascolto, vengono considerati adatti alla cura, anche se, in realtà, non fanno che legare e contenere, se non i corpi, la parola di chi soffre e cerca aiuto. Sono di moda le ricette comportamentali fatte di consegne per far passare l’attacco di panico, o la depressione, o lo stato d’agitazione di un bambino, o la fobia di un adulto. I sintomi non sono considerati come se parlassero del soggetto e avessero una causa inconscia da ricercare attraverso la messa in moto dell’inconscio, ma vengono fatti dipendere dalla cattiva volontà di chi ne è affetto, come se la volontà bastasse a guarire e si restasse sordi a quelle parole che tanto spesso ascoltiamo: “è qualcosa di più forte di me, è qualcosa che mi supera”.
Una paziente raccontava che lo psicoterapeuta, le aveva prospettato un programma comportamentale contro la fobia dei topi anticipandole che l’ultima prova che avrebbe dovuto sostenere sarebbe stata quella di accarezzare un ratto. Erano elusi non solo l’ascolto della parola del soggetto, ma anche la funzione che la fobia ricopre nell’economia del rapporto di quel soggetto con la pulsione. Era bandita qualsiasi possibilità di ricercare la causa inconscia di quel che faceva soffrire la paziente. L’inconscio è bandito anche presso gli psicoanalisti. Una fiction americana di grande successo, il cui modello è stato ripreso anche in Italia, “In Treatment”, è un esempio di così detta psicoanalisi dove la funzione dell’inconscio come concetto fondamentale nella cura psicoanalitica è completamente assente, al punto che non si capisce più chi sia il paziente e chi il terapeuta… il discorso si svolge sullo stesso piano di una bella chiacchierata con una persona amica o giù di lì…
L’inconscio di Freud, come diceva Lacan, non è nemmeno la caverna di cui sappiamo che Platone guidava le persone verso l’uscita. L’inconscio ha un ingresso che può far pensare a quello della caverna, ma è un ingresso particolare: si apre e si chiude all’istante e, affinché si apra per un attimo, non è da fuori che si bussa ma da dentro, dall’interno. Che cosa fa l’analista, allora? Fa due cose: tende l’orecchio alla chiamata dell’inconscio e fa in modo che non si richiuda. L’analista non è come Platone, non accompagna all’uscita, ma fa in modo che l’inconscio continui a pulsare. Per farlo deve essere passato egli stesso, nella sua formazione, per l’esperienza di una analisi personale in cui abbia potuto delucidare il proprio inconscio, altrimenti si rifà “in treatment”.
Occorre un ascolto attento alle parole del paziente tale da permettergli di produrre il suo di sapere, un sapere sconosciuto che lo sorprenderà e lo metterà al lavoro, per esempio producendo un sogno, un lapsus, una dimenticanza, quelle “formazioni dell’inconscio” che gli permetteranno di riscrivere la trama della sua storia, di ricordare e annodare passaggi cruciali della sua vita in cui qualcosa dell’insopportabile si è fissato producendo sintomi.
Niente soffitta, niente cantina e niente libreria da smontare, forse una caverna, sì, purché si tenga conto che la porta tende a richiudersi. Non sempre, infatti, si vuole sapere ciò che potrebbe intessersi in quella trama, ossia l’impossibile, l’indicibile, l’insopportabile che le parole veicolano. L’insopportabile – la pulsione per Freud, il “reale”, o il “godimento” per Lacan -, proprio perché di tessitura si tratta, appare nei buchi della trama stessa, nelle rotture, sui bordi.
Il godimento, quella cosa che fa male e fa bene al tempo stesso, si appunta in luoghi particolari: occhio, bocca, orecchio, ano, genitali, ecc…, nella forma di un oggetto – qui sì che possiamo parlare di oggetto -, un oggetto privilegiato per ciascun essere umano che può prendere il nome di sguardo, voce, seno, feci, ecc… Intorno a questi oggetti si cristallizza il particolare modo di ciascuno di godere, di gestire la pulsione nel rapporto con l’altro, con il desiderio, sia nel sesso sia nell’amore.
Per definire l’inconscio possiamo, infatti, usare anche un’altra metafora di Lacan, quella della vescica, ossia l’inconscio come un bordo che si dilata e si restringe, si apre e si chiude, come una bocca che succhia, come un organo che pulsa, come un orifizio del corpo. Un’altra metafora, invece, questa volta non di Lacan, potrebbe essere quella delle antenne della lumaca, animaletto che per la sua consistenza evoca la mucosa degli orifizi. Appena le tocchiamo con un dito, le piccole antenne si ritraggono e un attimo dopo rispuntano fuori. Le nostre dita sono per la lumaca quello che per l’essere umano è l’Altro, con la A maiuscola, l’Altro del linguaggio al quale attribuiamo il potere di darci il senso delle cose e la garanzia delle nostre azioni. L’incontro con l’Altro lascia un segno, le parole dell’Altro – genitori in primo luogo -, che siano parole d’amore, o di odio, di indifferenza o intessute di silenzio, lasciano il segno. Da queste parole origina la pulsazione dell’inconscio.
Lacan ha anche detto che l’inconscio ha la stessa struttura del linguaggio, ed evidenziava così quel che aveva scoperto Freud con i lapsus, il sogno, ecc… L’inconscio è congiunzione ma anche taglio, taglio vivo tra il soggetto e l’Altro, e, come per l’effetto di ogni taglio, il soggetto incontra una perdita e di conseguenza gli resta una cicatrice che chiamiamo il “rimosso”. Anche la lumaca perde l’umore vischioso, quando incontra le nostre dita.
La perdita causata dall’incontro con l’Altro segna l’entrata dell’essere umano nel linguaggio. Ma che cosa si perde? Si è divisi dall’incontro con il linguaggio e allora si perde l’illusione della completezza di cui la simbiosi della relazione madre/bambino è il prototipo; si perde l’illusione di un essere a tutto tondo. L’essere parlante, l’essere umano è questa perdita. Non si dice soggetto per differenziarlo dall’oggetto, o per conferirgli una nobiltà che non avrebbe in quanto semplice oggetto, ma per evidenziare come l’essere umano sia assoggettato al linguaggio e in quanto tale sia un soggetto dell’inconscio.
L’inconscio, dunque, si situa a livello del linguaggio, ha struttura di linguaggio e in quanto struttura, include dei buchi. Perfetta e logica, tale struttura lascia spazio all’invenzione di ciascuno a partire da ciò che non si decifra, a partire da ciò che nel sintomo rimane senza interpretazione, a partire da ciò che non sappiamo di sapere.
A noi, oggi più che mai, proprio nel rispetto della singolarità di ciascuno, senza imposizioni e pregiudizi su ciò che è bene o ciò che è male, interessa l’inconscio con Freud e con Lacan, ci interessa la sua funzione che vogliamo mantenere viva per chi viene a chiedere ascolto al Cortile.
Céline Menghi