Ci sono tanti nomi per dire le forme del disagio che toccano gli esseri umani. Sono nomi che servono a classificare, a mettere in ordine i disturbi e i sintomi. E’ una maniera per facilitare l’orientamento nei sentieri del malessere e della sofferenza che affliggono donne, uomini, adolescenti e bambini a un certo momento della vita e per cause apparentemente inspiegabili. Per questo diciamo: bulimia, attacchi di panico, depressione, conflittualità della famiglia, disturbi del linguaggio e così via applicando una serie di etichette.
Sembra che ogni epoca della storia abbia i suoi disturbi e i suoi sintomi, in quanto effetti della società. Essi, dunque appaiono nuovi e particolari in ogni epoca, anche se a molti non si era semplicemente dato un nome o si presentavano con sfumature diverse da quelle di oggi.
Al Cortile, anche noi, come si fa generalmente, li chiamiamo con dei nomi ma vogliamo evidenziare, al tempo stesso, che dietro i nomi, dietro le etichette si nasconde la particolarità di ciascun essere parlante, anche di coloro che apparentemente non parlano, come succede a certi bambini, per esempio, che non parlano o parlano poco o dicono cose sconnesse in una lingua strana e incomprensibile.
Che cosa vogliamo dire?
Vogliamo dire che dietro ogni etichetta che definisce il disturbo o il sintomo, si nasconde qualcosa di unico, qualcosa che appartiene solo a quella persona e non a un’altra, qualcosa che sfugge all’etichetta. L’essere umano ha il suo modo particolare di usare ciò che gli fa male e lo fa soffrire. L’uso che ne fa, paradossalmente, ha qualcosa d’inventivo: gli serve a stare al mondo e ad avere rapporti con gli altri e, dunque, per certi versi gli fa anche bene. Sembra un paradosso che quello che fa soffrire faccia anche bene. La bulimia, per esempio, non è la stessa per tutti e non serve a tutti allo stesso scopo. L’attacco di panico di Tizio non è lo stesso di Caio. La depressione non significa lo stesso per tutti, e così via. Capita che il sintomo, che bene o male, nel bene e nel male, funzionava per fare stare la persona al mondo anche al prezzo di una certa sofferenza, improvvisamente si presenti come insopportabile, ovvero il male supera il bene, non funziona più come prima, di qui la richiesta di aiuto, di ascolto, a volte urgente.
I sintomi, dunque, sono importanti e pertanto non vanno né cancellati né guariti di corsa, come spesso si pensa che debba essere, ma vanno lasciati parlare e ascoltati.
Guarirli di corsa sarebbe come mettere un cerotto su una ferita sporca di cui non conosciamo l’origine o mettere un tappo là dove l’acqua deborderà da un’altra parte. Il sintomo non ascoltato, non dipanato, come si dipana una matassa, non potrà rivelare la sua funzione né la ragione per cui una persona, seppur sofferente, non lo molla. Il sintomo ascoltato, invece, potrà rivelare qualcosa di cui la persona stessa, parlandone, si sorprenderà scoprendo di non sapere di sapere, di sapere più di quanto non pensasse. Si sorprenderà, per esempio, di non essere solo una vittima del suo stesso sintomo ma di esserne addirittura complice. Potrà incominciare a non dare tutta la colpa agli altri, assumendosi le proprie responsabilità rispetto a ciò di cui si lamenta. Dipanarlo, dunque, aiuta a scoprire le ragioni della sofferenza che non apparivano alla luce del sole, e a recuperare nel sintomo quella parte senza senso di cui fare tesoro, da cui trarre oro. Ciò comporta come conseguenza che la vita diventi più vivibile, che si trovino modi meno dolorosi e più creativi di stare al mondo, di amare, di lavorare, di stare con gli amici, con i figli, di affrontare la solitudine, di rapportarsi alla sessualità, e così via, ognuno a modo suo.
Il sintomo, da semplice sofferenza rivela, finalmente, la sua faccia d’invenzione e creativa.